Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) - Emőke Baráth, Барбара Строцци
С переводом

Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) - Emőke Baráth, Барбара Строцци

  • Альбом: Strozzi: Voglio cantar

  • Anno di rilascio: 2019
  • Durata: 12:48

Di seguito il testo della canzone Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) , artista - Emőke Baráth, Барбара Строцци con traduzione

Testo " Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) "

Testo originale con traduzione

Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo)

Emőke Baráth, Барбара Строцци

Оригинальный текст

Sul Rodano severo

giace tronco infelice

di Francia il gran scudiero,

e s’al corpo non lice

tornar di ossequio pieno

all’amato Parigi,

con la fredd’ombra almeno

il dolente garzon segue Luigi.

Enrico il bel, quasi annebbiato sole,

delle guance vezzose

cangiò le rose in pallide viole

e di funeste brine

macchiò l’oro del crine.

Lividi gl’occhi son, la bocca langue,

e sul latte del sen diluvia il sangue.

Oh Dio, per qual cagione

(par che l’ombra gli dica)

sei frettoloso andato

a dichiarar un perfido, un fellone,

quel servo a te sì grato,

mentre, franzese Augusto,

di meritar procuri

il titolo di giusto?

Tu, se ’l mio fallo di gastigo è degno,

ohimè, ch’insieme insieme

dell’invidia che freme

vittima mi sacrifichi allo sdegno.

Non mi chiamo innocente:

purtroppo errai, purtroppo

ho me stesso tradito

a creder all’invito

di fortuna ridente.

Grand’aura di favori

rea la memoria fece

di così stolti errori,

un nembo dell’obblio

fu la cagion del precipizio mio.

Ma che dic’io?

Tu, Sire – ah, chi nol vede?

tu sol, credendo troppo alla mia fede,

m’hai fatto in regia corte

bersaglio dell’invidia e reo di morte.

Mentre al devoto collo

tu mi stendevi quel cortese braccio,

allor mi davi il crollo,

allor tu m’apprestavi il ferro e ’l laccio.

Quando meco godevi

di trastullarti in solazzevol gioco,

allor l’esca accendevi

di mine cortigiane al chiuso loco.

Quella palla volante

che percoteva il tuo col braccio mio

dovea pur dirmi, oh Dio,

mia fortuna incostante.

Quando meco gioivi

di seguir cervo fuggitivo, allora

l’animal innocente

dai cani lacerato

figurava il mio stato,

esposto ai morsi d’accanita gente.

Non condanno il mio re d’altro errore

che di soverchio amore.

Di cinque marche illustri

notato era il mio nome,

ma degli emuli miei l’insidie industri

hanno di traditrice alla mia testa

data la marca sesta.

Ha l’invidia voluto

che, se colpevol sono,

escluso dal perdono

estinto ancora immantinente io cada;

col mio sangue ha saputo

de’ suoi trionfi imporporar la strada.

Nella grazia del mio re

mentre in su troppo men vo’,

di venir dietro al mio pie’

la fortuna si stancò,

onde ho provato, ahi lasso,

come dal tutto al niente è un breve passo.

Luigi, a queste note

di voce che perdon supplice chiede,

timoroso si scuote

e del morto garzon la faccia vede.

Mentre il re col suo pianto

delle sue frette il pentimento accenna

tremò Parigi e torbidossi Senna.

Перевод песни

Sul Rodano severo

giace tronco infelice

di Francia il gran scudiero,

e s'al corpo non lice

tornar di ossequio pieno

all'amato Parigi,

con la fredda ombra almeno

il dolce garzon segue Luigi.

Enrico il bel, sogliola quasi annebbiato,

delle guance vezzose

cangiò le rose in viola pallido

e di funeste salamoia

macchiò l'oro del crine.

Lividi gl'occhi figlio, la bocca langue,

e sul latte del sen diluvia il sangue.

Oh Dio, per qual cagione

(par che l'ombra gli dica)

sei frettoloso andato

a dichiarar un perfido, un fellone,

quel servo a te sì grato,

mentre, franzese Augusto,

di meritar procurarsi

il titolo di giusto?

Tu, se 'l mio fallo di gastigo è degno,

ohimè, ch'insieme insieme

dell'invidia che freme

vittima mi sacrifichi allo sdegno.

Non mi chiamo innocente:

purtroppo errai, purtroppo

casa mia stessa tradizione

un credente all'invito

di fortuna ridente.

Grande aura di favori

rea la memoria fece

di così stolti errori,

un nembo dell'obblio

fu la cagione del precipizio mio.

Ma che dico?

Tu, Sire – ah, chi nol vede?

tu sol, credendo troppo alla mia fede,

m'hai fatto in regia corte

bersaglio dell'invidia e reo di morte.

Mentre al devoto collo

tu mi stendevi quel cortese braccio,

allor mi davi il crollo,

allor tu m'apprestavi il ferro e 'l laccio.

Quando meco godevi

di trastullarti in solazzevol gioco,

allor l'esca accendevi

di mine cortigiane al chiuso loco.

Quella palla volante

che percoteva il tuo col braccio mio

dovea pur dirmi, oh Dio,

mia fortuna incostante.

Quando meco gioivi

di seguir cervo fuggitivo, allora

l'animale innocente

dai cani lacerato

figurava il mio stato,

esposto ai morsi d'accanita gente.

Non condanno il mio re d'altro errore

che di sovrano amore.

Di cinque marche illustri

notato era il mio nome,

ma degli emuli miei l'insidie ​​industri

hanno di tradizione alla mia testa

data la marca sesta.

Ha l'invidia voluta

che, se colpevol sono,

escluso dal perdono

estinto ancora immatinente io cada;

col mio sangue ha saputo

de’ suoi trionfi importar la strada.

Nella grazia del mio re

mentre in su troppo men vo',

di venire dietro al mio pie’

la fortuna si stancò,

onde ho provato, ahi lazo,

come dal tutto al niente è un breve passo.

Luigi, a queste note

di voce che perdon supplice chiede,

timoroso si scuote

e del morto garzon la faccia vede.

Mentre il re col suo pianto

delle sue frette il pentimento accenna

tremò Parigi e torbidossi Senna.

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